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FEDE, SPERANZA e CARITÀ: • la FEDE che innalza l'uomo al di sopra della sua immagine, spingendolo oltre l'immanenza, ispirandogli la ricerca di un senso, non riduttivo, ma trascendente, di quell'unico Amore che salva; • la SPERANZA, ombra e non luce nel mondo buio che spesso rifiuta il cammino illuminato; • la CARITÀ per tornare alla purezza di cuori che amano […]

FEDE, SPERANZA e CARITÀ:

 la FEDE che innalza l'uomo al di sopra della sua immagine, spingendolo oltre l'immanenza, ispirandogli la ricerca di un senso, non riduttivo, ma trascendente, di quell'unico Amore che salva;

 la SPERANZA, ombra e non luce nel mondo buio che spesso rifiuta il cammino illuminato;

 la CARITÀ per tornare alla purezza di cuori che amano incondizionatamente, senza pretese e con umiltà, scoprendo che essa è la più grande di tutte le virtù.

 

Abitualmente a guardare i giovani ci si mortifica pensando a tutti quei valori che paradossalmente si contribuisce - consciamente o inconsciamente - a custodire, al punto che la fiducia in un futuro sicuro è divenuta una malsana illusione passibile di condanna.

Spesso magari si pensa alle redini del passato perse nei meandri di una velocità post-moderna all'insegna del progresso e del mutamento continuo.

Purtroppo scontrarsi con questo muro di nebbia è un dato innegabile: il presente ha escluso dalle opzioni un necessario che non sia puro desiderio o bisogno, una stabilità che vada oltre le potenzialità scientifico- culturali e una misura che sorpassi l'uomo nella sua piccolezza.

Per quanto sia in voga il convincimento di un benessere legato alla condizione descritta poche righe qui sopra, il fatto, l'evidenza, danno ragione a quel pacato ma incessante vociare della ragione e della coscienza, che non smette di echeggiare alle radici, a noi stessi, all'identità.

La società della modernità liquida ha tolto la personalizzazione a favore della massificazione travestita da smaniosi tentativi angosciati di originalità individuale.

Tutti ne siamo vittime: giochiamo all'indipendenza e alla sussistenza isolata e autonoma, spacciando il nostro travestimento come il migliore, l'unico nel suo genere, ma così facendo e per poterlo fare ci obblighiamo a verniciare ogni specchio pur di garantire la nostra idea come sufficiente in se stessa. Per dirla con Bauman: «Qual è la caratteristica della liquidità, dei liquidi? Si distinguono per una caratteristica fondamentale: non possono preservare la loro forma per troppo tempo. Hanno la tendenza a cambiare continuamente, cambiano e l'impatto è imprevedibile».

Il dato è che molti di noi (e non unicamente dai 15 ai 25/30) cadono in questa liquefazione della loro identità ingannati dal bombardamento culturale e mediatico a favore del carpe diem, del piacere. Non c'è responsabilità, non c'è l'altro: c'è l'io e questo è quanto di un combattimento tra l'attrazione per una vita ideale e idealizzata e l'angoscia, quella perenne frustrazione cronica, di nuotare senza poter venire a galla in un habitat che non combacia con la nostra natura.

 

 

Ma davvero sono questi i giovani?

 

Questo spicchio di realtà, sul quale abbiamo fatto luce poc'anzi, è una percentuale molto grande della torta, ma non è la torta: l'impasto è ancora commestibile ed è sulla sua qualità, non sulla quantità, che classificheremo quel dolce un golosissimo e buonissimo cibo!

Ci sono gruppi di giovani o singoli giovani, che hanno deciso di capire ciò che sono chiamati ad essere per poter edificare una persona in grado un giorno di dire con fierezza:

Io ero lì! Io ci sono, io c'ero, io voglio esserci perché amo, lodo, respiro, ringrazio, osservo, ascolto e non posso ignorare che la mia vita vale anche grazie a coloro che incrocio per ore o pochi secondi.

Sono anime che camminano perché hanno deciso di definire la destinazione: collaborare al cambiamento che vogliono vedere nel mondo e lasciare quanto è in loro potere dare, contribuendo alla ricostruzione piuttosto che alla frammentazione del tessuto comunitario.

La patologia più diffusa di questo nostro tempo è l'indifferenza, alimentata, in origine o in conseguenza, da disagi esistenziali come l'angoscia, la depressione, l'isolamento a fronte dei quali si attivano stili di vita “tappa buchi”, ovvero che rattoppano le ferite per il timore di un abito nuovo.

Quest'ultimo implica una svolta, la decisione di cambiare alcuni lati di se stessi o della propria vita: il sacrificio - questione spinosa ai margini dell'era tecnologica, segnata dalla prontezza immediata e dall'efficienza di strumenti divenuti più vitali di uomini cosificati, controllabili parzialmente e a breve termine - presiede agli antipodi rispetto ai mezzi di cui disponiamo che promettono sconfinato benessere con sofferenza/privazione a costo zero.

Ciò che questa cultura non vuole ammettere è che il binomio rinuncia-dispiacere è fallace e artificialmente costruito: se davvero così fosse non si potrebbe a ragione parlare dell'indifferentismo patologico, piuttosto di una felicità cronica?

Ma non è così ... perché? Probabilmente quello che viene posto come sacrificio delle proprie volontà e quindi nei termini di mancanza, altro non è che l'assenza dell'indispensabile il quale rimane celato dietro l'esigenza di qualcosa che vada oltre materialità e possesso.

Uscire da questo paradigma è una scelta aut-aut, senza se e senza ma, bianco o nero, perché accettare che le cose in realtà non funzionano per la nostra umanità significa guardare, vedere e non passare oltre, con l'immediata propensione all'azione in vista del fine proprio e condiviso, cioè della felicità intesa come bene comune.

Il disprezzo dinanzi all'apertura a questo mistero che trascende l'uomo è rende più eveidente la bellezza, invece, di questi giovani “diversi” da quelli che occupano più frequentemente la cronaca dei quotidiani.

 

Perché incontrarli genera stupore?

 

La crisi dalla quale fatichiamo a risollevarci è quella dei valori: la famiglia, la relazione, la vita, Dio. Abbiamo lasciato che divenissero fattori trasversali preda di istinti, congetture o libertà (tradotta come diritto al desiderio soddisfatto) intesa come assenza di impedimenti, dimenticando che l'indole più propria alla nostra natura è riconoscerci come creature piccole, manchevoli, bisognose d'aiuto, volte alla spiritualità e alla relazionalità, non all'individualismo e allo scientismo.

La fede che ci chiama è quella per l'Amore gratuito, abbiamo bisogno che qualcuno ci ami e ci perdoni dicendoci che valiamo a prescindere da come siamo o vorremmo essere. Abbiamo bisogno di sentirci liberi per qualcuno, per qualcosa, non liberi da qualcuno o qualcosa.

Abbiamo bisogno di essere assolti dalla pesantezza della gogna pubblica che auspica l'indipendenza della diversità, ma non tollera questo tipo di stranezza come lecita poiché troppo compromettente e negativamente vincolante. Questa libertà autentica non ha niente a che vedere con l'anarchica libertà del dominio praticata oggi: non c'è un corpo che giostriamo a piacimento e non ci sono azioni condotte sugli altri che possano legittimamente ledere la loro dignità e integrità.

Ogni volta che la libertà ignora l'autorità della legge naturale insita in noi, della nostra coscienza, chiudendosi così agli altri e generando soprusi, non può propriamente dirsi libertà quanto piuttosto acido corrosivo della giustizia.

Realtà giovanili che difendono il ritorno a principi stabili orientati alla certezza di un futuro familiare, impregnato della ferma e costante intenzione di esserci incondizionatamente per qualcuno senza il bisogno di pensare che questa struttura potrebbe facilmente fallire, sono la controprova che non basta fare per dirsi vivi, occorre che si sappia esattamente cosa fare e perché sia possibile è indispensabile che a monte ci sia la voglia di conoscere, a rischio e pericolo di scoprirsi vulnerabili. «Vivere non vivacchiare»!

 

La testimonianza che viene data da iniziative positive, fresche e gioiose come CORXIII, è di non restare a guardare: giunge il tempo per ognuno della svolta verso l'eternità. La sfida è di scommettere che questa schizofrenia identitaria che attanaglia la popolazione non sia l'esito ultimo, ma un caso circoscritto risolvibile per mano nostra.

L'invito è di ridimensionare gli scopi della nostra vita, non in vista dell'utile, ma della felicità e del Bene. Per fare questo non è possibile restare fermi, in silenzio davanti al dispiegamento di una realtà malata fatta di soggetti identici tra loro, assemblati in codici indeterminati, occorre «fare della propria vita un capolavoro».

Dai nodi di queste reti argomentative dipartono corde tese sulle nostre esistenze, dal concepimento alla morte naturale, che domandano perché e cosa aspettiamo per dichiarare apertamente che la Vita e ciò che siamo sono la migliore delle opportunità indisponibili: ci rende capaci di collaborare con Dio al Suo progetto divino relazionandoci personalmente con Lui.

Impariamo a divenire terapia del mondo dando ad esso, alla famiglia, all'Amore, a Dio, fiducia e il meglio di noi stessi affinché si possa dire che noi c'eravamo, abbiamo amato, abbiamo vissuto e fatto il nostro meglio!


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